“Le strade di accesso alla città erano tutte chiuse con l’esercito e le transenne. Chi era dentro doveva rimanere dentro. Chi era fuori non poteva entrare”. Così Mariateresa Gallea, 34 anni, medico di Medicina Generale, descrive il suo primo impatto con il cordone blindato dell’emergenza a Vo’ Euganeo. È la mattina di lunedì 24 febbraio e il paese, a poco più di venti chilometri da Padova, è diventato all’improvviso la frontiera da non oltrepassare, la prima zona rossa d’Italia insieme a Codogno. Tra le centinaia di persone messe in isolamento, per tentare di bloccare il contagio, ci sono anche i tre medici di base che servono la comunità locale. Potrebbero essere già positivi al Covid ed è indispensabile sostituirli con qualcuno capace di prendersi cura dei loro pazienti. Mariateresa, insieme ad altri due giovani colleghi, si trova catapultata nel primo epicentro italiano della pandemia avendo risposto all’appello della sera prima, con cui la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale chiedeva rinforzi per Vo’ Euganeo. Descrive così il ricordo ancora vivo di quei giorni: “l’esperienza con il Covid è per me iniziata venerdì 21 febbraio, quando l’ospedale di Schiavonia è stato chiuso in seguito al primo conclamato decesso per Covid in Italia”. La sede di continuità assistenziale dove opera la dottoressa Gallea si trova infatti proprio vicino a quell’ospedale ed è durante il suo turno come guardia medica che arriva la prima onda d’urto della chiusura, con il diffondersi della notizia e del panico nella popolazione locale. “Essendo chiuso l’ospedale, senza la disponibilità dei medici di famiglia nel fine settimana, in tanti si sono rivolti al nostro servizio di guardia medica. Alcuni avevano la febbre o sintomi affini a quelli del Covid, altri nei giorni immediatamente precedenti erano stati all’ospedale di Schiavonia a visitare i propri parenti o si erano recati al pronto soccorso. Tutti avevano il timore di aver contratto il virus e giustamente non sapevano cosa fare”.
Covid o non Covid l’attività ordinaria doveva andare avanti. A Vo’ c’erano più di tremila persone isolate e con bisogno di assistenza.
Mariateresa Gallea
È proprio sull’onda di quelle ore concitate, alla fine di quel difficile fine settimana, che Mariateresa legge la richiesta di aiuto per Vo’. “Covid o non covid l’attività ordinaria doveva andare avanti – racconta ancora la dottoressa Gallea. A Vo’ c’erano più di tremila persone isolate e con bisogno di assistenza. Per il nuovo virus certamente, ma anche per tutte le altre problematiche per cui occorre l’intervento di un medico di base, come la prescrizione dei farmaci necessari per altre patologie”. Il tempo per riflettere è poco, la reazione quasi istintiva. “Domenica arriva l’appello della nostra Federazione e il lunedì mattina siamo a Vo’ Euganeo a riaprire gli studi medici. C’era una parte di paura e di timore nell’andare lì. Era una situazione nuova per tutti. Ma c’era anche l’adrenalina che ci ha permesso di accantonare i timori. Dovevamo concentrarci su come organizzare il lavoro e in che modo offrire il supporto di cui i pazienti avevano bisogno”.
C’era una parte di paura e di timore nell’andare lì. Era una situazione nuova per tutti. Ma c’era anche l’adrenalina che ci ha permesso di accantonare i timori. Dovevamo concentrarci su come organizzare il lavoro e in che modo offrire il supporto di cui i pazienti avevano bisogno.
Mariateresa Gallea
Cominciano giorni di lavoro estenuante. Ogni mattina la dottoressa Gallea entra nella zona rossa per aprire lo studio e ricevere le persone che necessitano di essere visitate. Si occupa delle visite domiciliari e risponde a decine di telefonate e e-mail che continuano ad arrivare senza sosta.
Ma la situazione non richiede solo supporto medico. La zona rossa ha separato le famiglie. Molte persone anziane non hanno più il supporto dei figli che, vivendo in un altro comune, non possono raggiungerle. Diventa da subito evidente anche l’aspetto più umano dell’emergenza sanitaria. Un caso tra tutti rimane impresso alla dottoressa che racconta: “Una signora con una forma iniziale di demenza non riusciva a comprendere come mai la figlia non andasse più a trovarla. Anche se ogni giorno la chiamava spiegandole che per via della situazione non avrebbe potuto vederla di persona, il giorno dopo la madre anziana le rifaceva la stessa obiezione. Quando al decimo giorno la signora ha avuto uno scompenso importante, sono andata a visitarla. La figlia, sapendo che sarei andata, mi ha chiesto il piacere di controllare se la madre avesse la quantità di farmaci necessari. Con la signora ci siamo messi a controllarli tutti, uno per uno, per vedere se ce ne fossero a sufficienza. È una cosa che va oltre la nostra attività ordinaria, ma che ho fatto con piacere. Come medici e come persone siamo entrati nell’intimità delle famiglie e, quando abbiamo potuto, ci siamo sostituiti a chi si è dovuto fermare davanti a quella frontiera invalicabile che separava dai propri cari”.